Corte Costituzionale, ordinanza 7 – 29 novembre 2018, n. 220
Presidente Lattanzi – Relatore Amato
Ritenuto che, con ordinanza del 26 ottobre 2016 (reg. ord. n. 74 del 2017), il Tribunale ordinario di Varese ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 660 del codice penale, nella parte in cui non prevede la procedibilità a querela del reato di molestia, con annessa rimettibilità della stessa, quanto meno limitatamente alle condotte idonee a recare molestia o disturbo esclusivamente a persona determinata;
che, come premette il giudice rimettente, la questione trae origine da un giudizio avente a oggetto il reato di cui all’art. 660 cod. pen., nella specie perpetrato attraverso molestia telefonica, giudizio nel quale la persona offesa costituita parte civile ha esplicitamente rimesso la querela, accettata dalla difesa dell’imputato;
che, nondimeno, poiché il reato in questione è procedibile d’ufficio, tale intervenuta remissione non potrebbe ritenersi efficace, con la necessità di pronunciarsi nel merito, anche contrariamente alle reali intenzioni delle parti originarie;
che, secondo il giudice a quo, la questione sarebbe senz’altro rilevante, poiché l’unica persona offesa ha chiesto espressamente di potersi giovare dell’istituto di cui all’art. 152 cod. pen., senza una decisione nel merito della causa penale;
che l’illegittimità della disposizione censurata sarebbe evidente prendendo a termine di raffronto l’art. 612-bis cod. pen., che disciplina il reato di atti persecutori, il quale, sebbene connotato da evidenti tratti di specialità e più grave rispetto al reato di molestia, è punito a querela della persona offesa, con la possibilità di una remissione dall’effetto estintivo, mentre nella più tenue ipotesi contravvenzionale sarebbe previsto un regime di procedibilità ex officio;
che, infatti, il reato di cui all’art. 612-bis cod. pen. integrerebbe una species, punita con pene più severe, della fattispecie contravvenzionale ex art. 660 cod. pen., almeno con riferimento alla massa di condotte astrattamente lesive d’interessi che fanno capo all’individuo singolo (in tal senso viene richiamata la sentenza n. 172 del 2014);
che, sebbene la giurisprudenza di legittimità abbia chiarito che il reato di molestia o disturbo alle persone tuteli un bene ulteriore rispetto a quello protetto dalla fattispecie di atti persecutori, cioè la tranquillità pubblica, ciò potrebbe valere soltanto qualora la condotta di disturbo rischi di arrecare nocumento a soggetti indeterminati, altrimenti si valorizzerebbe un’offesa a beni privati non caratterizzante del reato contravvenzionale;
che, dunque, numerose forme di condotta sussumibili e sussunte sub art. 660 cod. pen., connotate da un’azione contenuta e isolata ai danni di una sola persona, finirebbero per ledere, almeno in misura preponderante, lo stesso bene giuridico protetto dall’art. 612-bis cod. pen. e, pertanto, sarebbe irragionevole prevedere un trattamento differenziato per le due fattispecie sotto il rilevante aspetto della procedibilità, in particolare se in pregiudizio del responsabile di un’offesa più tenue;
che il giudice rimettente asserisce di essere a conoscenza che questa Corte, con l’ordinanza n. 392 del 2008, ha già dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 660 cod. pen., censurato, in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui prevede la procedibilità d’ufficio anche nell’ipotesi in cui la molestia è rivolta non già ad un numero indeterminato di persone, ma a danno di un soggetto ben determinato;
che, tuttavia, in tal caso si prendevano a raffronto norme incriminatrici assai dissimili rispetto alla contravvenzione in esame, mentre l’introduzione dell’attuale termine di comparazione, ossia l’art. 612-bis cod. pen., renderebbe nuova la questione in questa sede sollevata;
che, da ultimo, sarebbe evidente l’impossibilità di addivenire a un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, poiché l’illegittimità della stessa sarebbe scongiurata soltanto ritenendo penalmente rilevanti le sole condotte idonee a mettere a repentaglio la tranquillità pubblica, con esclusione di quelle «uni-direzionate» nei confronti del singolo o di singoli soggetti determinati, secondo un’interpretazione, però, in evidente contrasto con il chiaro tenore letterale dell’art. 660 cod. pen., nonché con un diritto vivente ormai consolidato;
che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque infondata;
che, in via preliminare, secondo l’Avvocatura generale dello Stato la questione sarebbe manifestamente inammissibile, poiché il giudice a quo avrebbe chiesto a questa Corte un intervento additivo che, oltre a non rappresentare l’unica soluzione alla ritenuta disparità di trattamento, risulterebbe del tutto eccentrico rispetto ai principi generali del sistema del diritto penale italiano, secondo cui i reati contravvenzionali sono tutti procedibili d’ufficio;
che, nel merito, la questione sarebbe comunque infondata, poiché il reato di cui all’art. 660 cod. pen. richiede che la molestia o il disturbo avvengano «in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono», in tal modo tutelando non solo il soggetto passivo della molestia o del disturbo, ma anche la tranquillità pubblica e il corretto utilizzo della rete telefonica a vantaggio dell’utenza generale, mentre il più grave delitto previsto dall’art. 612-bis cod. pen. potrebbe essere commesso anche a parole e in ambito privato.
Considerato che il Tribunale ordinario di Varese ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 660 del codice penale, nella parte in cui non prevede la procedibilità a querela del reato di molestia, con annessa rimettibilità della stessa, quanto meno limitatamente alle condotte idonee a recare molestia o disturbo esclusivamente a persona determinata;
che il reato di cui all’art. 660 cod. pen. risulta inserito nel paragrafo I della Sezione I del Capo I del Titolo I del Libro III del codice penale, dedicato alle «contravvenzioni concernenti l’inosservanza dei provvedimenti di polizia e le manifestazioni sediziose e pericolose», nell’ambito di quelle concernenti l’ordine pubblico e la tranquillità pubblica;
che, come già chiarito da questa Corte con l’ordinanza n. 392 del 2008, l’intervento additivo richiesto dal giudice a quo sarebbe del tutto eccentrico rispetto ai principi generali del sistema del diritto penale italiano, che prevede la procedibilità a querela solo per taluni delitti, mentre i reati contravvenzionali sono tutti procedibili d’ufficio;
che siffatte considerazioni restano impregiudicate anche in seguito all’introduzione nell’ordinamento penale del reato di atti persecutori di cui all’art. 612-bis cod. pen., richiamato dal giudice a quo quale termine di comparazione, poiché la fattispecie contravvenzionale in esame non potrebbe comunque avere un regime di procedibilità diverso da quello previsto per tutte le contravvenzioni;
che, quindi, sebbene possa apparire inattuale ricomprendere nell’oggetto dell’art. 660 cod. pen. le molestie perpetrate col mezzo del telefono nei confronti di soggetti determinati, i cui effetti sovente restano in una sfera privata, la qual cosa potrebbe rendere opportuno un intervento del legislatore in materia, ciò non si risolve nell’illegittimità costituzionale della disposizione censurata;
che, pertanto, la questione deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
Per questi motivi
la Corte Costituzionale
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 660 del codice penale, sollevata dal Tribunale ordinario di Varese, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.